VITA DI SAN NICOLA SCRITTA DA P. FEDERICO CRUCIANI

Nel tempo in cui di quel vasto complesso che in Tolentino va sotto il nome di S. Nicola gli Agostiniani costruivano o adattavano alle loro esigenze gli elementi più importanti, il santo ci viveva di famiglia. E nelle deliberazioni prese dalla comunità monastica sui vari problemi edilizi o organizzativi è pensabile che anche lui vi abbia influito, se non altro con il suo voto. Ma i confratelli, pur consapevoli di vivere a fianco di un santo, non avrebbero certo potuto immaginare quanto, al suo sviluppo e ai suoi mutamenti, vi avrebbe influito da morto. I santi hanno sempre una vita lunga e non si può mai stabilire quando siano veramente morti.

Per trent’anni egli visse qui con i suoi confratelli. Storia e tradizioni precisano anche alcuni luoghi che egli ha maggiormente santificato con la sua presenza. Del resto a tutta Tolentino era ben nota la sua sagoma, se non proprio il suo volto, specialmente alla Tolentino dei sofferenti e dei poveri, presso i quali si recava frequentemente a portare il conforto della fede, della solidarietà, e non raramente anche la forza del prodigio.

Vi era arrivato attorno al 1275. Ma la fama di uomo di Dio l’aveva abbondantemente preceduto. E aveva appena trent’anni.

A Tolentino, nella parte più meridionale della cinta muraria, fervevano cantieri per creare una sede adatta ai nuovi monaci che erano stati costituiti in vero e proprio Ordine religioso del tipo dei Mendicanti per iniziativa dei papi e della Chiesa appena una ventina di anni prima (1256). Prima erano degli aggregati di eremiti, con dei rapporti giuridici non ben definiti, ma che avevano come denominatore comune la Regola di S. Agostino.

Nelle Marche l’aggregato più in vista (congregazione) era quello di Brettino, sorto nella omonima località sulle colline a Nord-Ovest di Fano; e anche la comunità che, a partire dal 1250, si veniva insediando a Tolentino apparteneva a questa congregazione, dal tenore di vita particolarmente austero.

Prima di approdare a Tolentino il giovane frate era già stato in diversi conventi della cosiddetta Marca di Ancona.

Era nato nel 1245 a Castel Sant’Angelo (Sant’Angelo in Pontano). I suoi genitori, senza figli e ormai avanti negli anni, lo ottennero come una grazia speciale di S. Nicola di Bari, presso il cui santuario si erano recati in pio e fiducioso pellegrinaggio per chiederlo e per offrirlo a Dio secondo la sua volontà. Fanciullezza austera e devota sotto la guida amorevole dei medesimi, poi nella scuola parrocchiale e nel rapporto intenso ed amichevole con gli Eremiti di S. Agostino, anch’essi della Congregazione di Brettino e da poco insediati nella piccola roccaforte.

La decisione di unirsi a quegli Eremiti fu assai precoce. Vestì l’abito agostiniano nel suo paese, fece probabilmente a San Ginesio il suo anno di noviziato che si chiuse con la professione religiosa attorno all’anno 1261.

Gli studi in grammaticalibus, et logicalibus, et postmodum in theologia li dovette svolgere fondamentalmente a Tolentino, ma con presenze, brevi e occasionali, a Montegiorgio, Montolmo (Corridonia), Macerata e Montecchio (Treia). Gli studi di grammatica e logica comprendevano il latino, l’arte del pensare e del comunicare e gli elementi fondamentali della filosofia. La teologia abbracciava lo studio della Sacra Scrittura e dei Padri della Chiesa e l’approfondimento delle Sentenze di Pietro Lombardo. Ci viene testimoniata l’applicazione seria e l’impegno del giovane religioso e l’ottimo profitto. Del resto, anche se egli non si è dedicato alla scienza e allo scrivere, si hanno abbondanti ragioni per pensare che aveva, oltre a eccellenti capacità umane, una solida formazione culturale che curò sempre in spirito di preghiera e di servizio alle anime. Terminati gli studi, il grande ideale fu raggiunto e Nicola fu ordinato sacerdote a Cingoli da un vescovo santo, il francescano Benvenuto di Osimo, probabilmente nell’anno 1273.

I primissimi anni di sacerdozio ha girato per molti conventi. La sua presenza è testimoniata, oltre che nei suddetti luoghi di studio, a Recanati, Piaggiolino, Valmanente, Fermo e Sant’Elpidio. Si è fatta anche l’ipotesi, non certamente improbabile, che di famiglia sia rimasto sempre assegnato a Tolentino. In tal caso assume maggiore probabilità l’idea che fosse stato dai superiori lanciato nella predicazione itinerante. I tempi lo chiedevano e lui ne aveva la stoffa. E acquista allora probabilità anche l’altra ipotesi che, data la gracilità del suo fisico e in vista di una vita meno faticosa, l’incarico che portò avanti per qualche tempo a Sant’Elpidio di maestro dei novizi sia stato motivato proprio dalla sua salute non esuberante. Però la storia non si può tessere a forza di ipotesi.

Indubbiamente si cominciò a parlare con insistenza di Tolentino, finché il giovane frate non ricevette l’ordine di tornare definitivamente alla base. A Fermo ebbe l’esperienza di qualcosa di penoso il cui ricordo gli pesò per tutta la vita: il ricordo della prova, della tentazione interiore, quella vera, quella che non si presenta col rombo di uno strappo violento, ma ti sgretola con la dolcezza della persuasione e che comunque ti fa prendere consapevolezza di tutta la fragilità che ti porti addosso.

Si credette in dovere, prima di partire, di recarsi a salutare un suo cugino anziano e venerando, che era il superiore dei Canonici Regolari di S. Agostino nel convento di S. Maria di Giacomo in Val di Tenna. Non è che si fossero visti molte volte: allora non si scarrettava in automobile. Il venerando padre restò impressionato della pallida magrezza di Nicola e se la prese con gli istituti e le mentalità: questi eremiti venivano su da esperienze troppo austere, troppo rigide ed erano di testa troppo piccola. Così si rovinava la salute, ed anche questa era un dono di Dio. Quanto era meglio la «sobria permissività dei Canonici Regolari, che miravano anch’essi a grandi ideali, ma non tarpavano le ali sacrificando eccessivamente la carne».

Nicola se ne venne via scosso e turbato. Non stava veramente esagerando? Non aveva dei precisi doveri circa la salute del corpo, anche in vista di un più incisivo apostolato tra le anime, che ora vedeva oggettivamente compromesso proprio per le difficoltà della salute? Ci pensò e ripensò. Aveva soltanto trent’anni. Quale era la sua strada? E se davvero avesse cambiato istituto? Ci si sentì persino male in questa specie di incantamento. Con tutta l’anima, con il pianto dentro e fuori, si buttò davanti al Signore. E capì che si era lasciato incantare. Che fosse sogno o visione, un angelo o qualcosa di arcano gli era davanti e aveva in mano una corona. E nel cuore sentì queste parole: – Tolentino, Tolentino. Il tuo destino è là. Rimani nella tua vocazione. Lì è la tua salvezza. –

Questo episodio gli rimase impresso, e forse ne ha sentito il rimpianto come di un cedimento. Anche i santi non sanno tutto, e a volte sfugge anche a loro quanto possa esser fecondo quel che ad essi era sembrato soltanto negativo.

A Tolentino lo precedette la fama di grande uomo di Dio, austero sommamente con se stesso, amabile e aperto con gli altri e pieno di virtù. E anche con carismi. Si parlava soprattutto di una certa visione che egli aveva avuto qualche tempo prima a Valmanente, nelle vicinanze di Pesaro: anime del Purgatorio che gli avevano chiesto accoratamente che celebrasse per loro la Santa Messa e che egli rivide, dopo una settimana, mentre esultanti e grate salivano verso il Cielo. Questo fatto, narrato da lui stesso con la semplicità dei santi, caratterizzerà poi la sua esistenza e sarà la ragione per cui nella Chiesa verrà riconosciuto come patrono delle Anime Sante del Purgatorio. E anche questo forse avrà contribuito a quella solerzia con cui per tutta la vita egli quotidianamente di buon’ora celebrò con la massima attenzione e devozione la Santa Messa. La cosa non va sottovalutata, perché a quel tempo non si usava, nemmeno nei conventi, che i frati sacerdoti celebrassero troppo frequentemente la Santa Messa. E considerava quel momento talmente impegnativo che vi si preparava attentamente non solo con lunghe preghiere, ma anche, e tutti i giorni, con il sacramento della riconciliazione per una più grande purificazione del cuore.

Dopo la Messa la sua vita di sacerdote fioriva sulle esigenze della carità e della disponibilità verso ogni forma di bisogno. E prima di tutto il confessionale. Molte ore al giorno dedicava a questo ministero, in cui era molto ricercato e amato. I sacerdoti santi hanno sempre avuto molto a cuore questo servizio, che è la carità più desiderata, perché riporta la serenità nei cuori. Ma in base alle testimonianze del Processo non ci pare esagerato affermare che S. Nicola è stato un campione, un esemplare in questo servizio umile e non gratificante.

E dal confessionale prendeva spesso anima e stimolo il suo servizio più spicciolo. La sua predicazione, la visita ai bisognosi chiusi e nascosti nei tuguri, la pacificazione in tutte le escrescenze degli odi e delle incomprensioni, la sollecitudine in tutte le miserie e le povertà, e anche il ricorso e le visite personali nei palazzi degli abbienti per trovare i mezzi di aiuto per chi non aveva possibilità economiche.

Ma la generosità e la prontezza che animarono costantemente il suo impegno di sacerdote si nutriva e si sostanziava nella pienezza e fedeltà con cui viveva la sua consacrazione religiosa.

Egli era un frate. Un frate di S. Agostino. Essere un consacrato, ossia un frate, significa fare di Dio il perno della propria esistenza, sicché a nessun’altra cosa si miri se non a Dio solo. Ci si impegna a professare i consigli evangelici, quelli della povertà, della castità e obbedienza, non come punto di arrivo e pretesto di privilegio, ma come mezzi di purificazione e di liberazione, perché non ci sia altro richiamo all’infuori di Dio infinito. E frate agostiniano o eremitano vuol dire vivere questi ideali insieme con altri, non in una convivenza che ti garantisca l’ordine e la pigrizia, ma in una comunità dove tutti siano impegnati nel cammino spirituale dei fratelli, da farsi in amicizia e condivisione, tutti protesi verso Dio.

E dicendo questo, abbiamo caratterizzato tutta la spiritualità monastica di S. Nicola. La sua vita si è svolta in un momento eccezionale per l’Ordine Agostiniano, il momento delle origini, dell’affermazione del carisma e delle sue caratteristiche, dello studio e della impostazione giuridica di esso. È il momento storico di una eccezionale fioritura di santi in seno all’Ordine ed anche della formazione delle leggi e delle costituzioni nei Capitoli Generali, e senz’altro nessuno ha espresso meglio di S. Nicola le caratteristiche dell’Ordine che si stava facendo le ossa. Egli fu come il violino di spalla, quello che dà l’intonazione e la mossa a tutti gli orchestrali di allora e di sempre.

Non c’è dubbio che la santità di S. Nicola come religioso si espresse in forme molto austere e pesanti, che possono sembrare esagerate e certo fuor di moda per le idee che girano oggi sulla sequela di Cristo e sulla santità. È impressionante quanto egli abbia mortificato e tenuto sotto freno la sua povera carne, perché non fosse di ostacolo alle ascese dello spirito. È impressionante soprattutto come egli abbia resistito e perseverato senza tentennamenti fino alla morte. Bisognerà concludere o che il suo fisico fosse di una resistenza eccezionale (il che in verità non era) o che di tempra eccezionale era il suo spirito.

Assiduo nel mortificare le voglie naturali dello stomaco e della gola, non mangiò mai, per tutta la vita, carne o cibi accattivanti, e tre volte alla settimana si tirava su solo con pane ed acqua. Povero stomaco!

E il sonno? Quanto veramente dormiva? E come? Oltre a quelle con i suoi confratelli, le lunghe sue preghiere lo tenevano in piedi tutto il giorno e per lunghe ore anche della notte. Tra tutto non dormiva più di tre, o al massimo quattro ore al giorno. E sosteneva le sue preghiere mortificando ancora la sua carne, tenendo stretto ai fianchi un aspro cilicio di ferro. Noi l’abbiamo avuto tra le mani. E abbiamo pianto. E spesso ancora si percuoteva con flagelli e catenelle.

Certo, viene da chiederci: – Ma tutto questo era necessario? Ma questa è la santità? – Noi non sappiamo rispondere. Se fossimo arrivati anche noi sulle vette, e le avessimo raggiunte passando per altri sentieri, potremmo rispondere. Ma noi le vette le stiamo guardando dal basso. E sono molto su. Sì, forse si può passare per altre strade. Ma nel Vangelo ci vien detto che la porta è stretta e la via accidentata. E anche che son pochi quelli che la percorrono.

Ma allora un santo di tal fatta spaventa, fa paura! E come sarà stato vivere con lui a Tolentino?

Ecco un’altra sfaccettatura del poliedro. Era estremamente amabile, delicato, dolcissimo, pieno di serenità e di equilibrio, comprensivo e affettuoso. Nel Processo i testimoni par che si affannino a cercar parole per descrivere la sua affabilità, la sua dolcezza e disponibilità. Sprigionava simpatia. Oh! ecco la santità bella, la santità che piace! E allora, lasciando da parte tanta iconografia posteriore, che ha fatto il possibile per rappresentare S. Nicola come una lisca di pesce, deperito e intristito dalle macerazioni, fermiamoci lì a contemplare il suo volto nel “Cappellone” di Tolentino. Son passati pochissimi anni dacché il santo è morto e il pittore, d’altronde assai documentato e meticoloso, bisognava che stesse al chiodo. Tutti ricordavano il suo volto. Guardatelo. Ci son tanti ritratti. È bello, è simpatico, è sorridente, è affettuoso, è persino pasciuto, delicato e nobile nei tratti e anche con un sorriso un tantino ironico. Ironia su se stesso, e forse un po’ anche verso di noi. Un bell’uomo dalla statura notevolmente superiore alla media, dalle mani delicate e dalle dita affusolate, con un viso assorto in cui gli occhi sembrano avere una certa loro vastità (Gentili).

Morì nel 1305, a sessant’anni. Età media di quel tempo. Dispiacque, ma non fu uno schianto. I santi non muoiono mai sul serio.

E lì ancora, nel Cappellone, la scena del trapasso è piena di vivacità. Il corpo solo è calmo nella rigidità della morte. Ma l’anima, rotondetta, è già fra le braccia del Salvatore, mentre, come per una foto di gruppo, posano la Beata Vergine e il Padre S. Agostino. Il quartetto angelico, con elegante precisione tecnica, si esibisce in un concerto gioioso, e il coro dei frati, dall’una e dall’altra parte, si accorda con loro nei canti rituali. Frattanto il Priore legge le preghiere dei defunti e sta per aspergere e incensare la salma. E una guardia civica, con tanto di scudo e, pare, anche di spada, cerca di “parare” la folla che già esplode nella venerazione del santo con un verdetto che anticipa il processo di canonizzazione.

È una scena profetica. Attorno al corpo del santo ci sono ancora oggi dei frati che cantano, folle che premono e certamente, dall’altra parte, angeli e santi che esultano in Cristo. E così S. Nicola è ancora una presenza, un anello che lega strettamente gli uomini e la loro storia nel cammino verso il definitivo del Cielo.